Appena rientrato da una lunga giornata di guardia in ospedale, mia moglie mi chiede: «Com'è andata?». La mia faccia scura aveva anticipato il mio umore. «Sono preoccupato» le rispondo. Ci spostiamo in cucina a parlare e le racconto di un parto andato male. Il neonato è stato rianimato per oltre un’ora, senza successo. Le racconto di aver fatto tutto quanto era possibile, di essere certo di non aver dimenticato nulla, di non aver commesso errori, di aver seguito le linee guida. Le dico di aver scritto tutto sulla cartella clinica, che tutto mi pare inappuntabile. «Mi sono anche confrontato con i colleghi, ma sono preoccupato», le ripeto. Condivido con lei, mentre ceniamo ormai alle dieci di sera, la mia ansia per una situazione che quasi certamente non finirà oggi per me. So che questa cartella clinica andrà in mano ai Carabinieri e probabilmente un giudice andrà a decidere se quello che ho fatto io, insieme ai miei colleghi, sarà reato oppure no.
«Tu come stai?» mi chiede lei, come se temesse che la mia preoccupazione nascondesse altro. «Sono preoccupato, quasi certamente sarò chiamato a giudizio, perché un neonato morto in sala parto ci porterà in tribunale, funziona così ormai».
Dopo qualche attimo di silenzio, lei mi dice: «È strano sentirti dire che sei preoccupato. Dopo quello che hai vissuto, mi sarei aspettata che tu fossi dispiaciuto, esausto, frustrato, arrabbiato. Hai tentato di salvare, per un’ora, un neonato morto. Hai parlato con i suoi genitori distrutti dal dolore. Una famiglia era pronta ad una grande festa, adesso deve preparare un funerale. Possibile che il primo - e sembra l’unico - sentimento che provi è la preoccupazione per una causa legale che ancora non c’è e che, se ci sarà, dirà che tu e i tuoi colleghi avete fatto il vostro lavoro, che nessuno avrebbe potuto salvare quel bambino?».
Primigravida di 36 anni, gravidanza a termine normodecorsa, diabete gestazionale non complicato controllato da terapia dietetica. Travaglio spontaneo regolare. A seguito dell’uscita della testa si riscontra mancato disimpegno delle spalle. Immediata richiesta di assistenza a personale anziano, richiesti in sala parto pediatra e anestesista; ricorso a manovre ostetriche secondo protocollo aziendale. Dopo 8 minuti dall’uscita della testa estrazione di feto atonico e privo di segni vitali…
Lei va a letto a leggere, io mi lascio andare sul divano. Ripasso a mente tutti gli avvenimenti cui ho assistito, da quando mi hanno chiamato alle 17.01. Non c’è niente che io avrei potuto o dovuto fare diversamente. Forse la cartella ostetrica poteva essere scritta meglio, ma i dati c’erano tutti, le procedure annotate, gli orari anche. Io avrei aggiunto di più per rendere il diario più chiaro. C’è chi pensa che scrivere troppo sulla cartella clinica ti inchiodi, io invece penso che sia proprio questo a scagionarti.
Per lei è strano che io non sia tornato a casa affranto per il dolore di due genitori che hanno appena perso il loro bambino. Sono anni che faccio questa professione e, a ragione o torto non lo so, ho sviluppato una certa corazza difensiva nei confronti del dolore altrui. La rianimazione di un neonato non mi lascia indifferente, certo, ma agli eventi tragici sono abituato. Mentre mi sbuccio un mandarino penso che, tuttavia, lei forse non ha torto. Il mio animo adesso dovrebbe essere come questo mandarino che ho in mano. Dovrebbe essere diviso in tanti spicchi, ognuno con una sfumatura diversa di quello che sento: frustrazione, dispiacere, rabbia, compassione, preoccupazione dovrebbero animare questo mio subbuglio interiore. Invece no, io sono solo preoccupato che un giudice mi condanni ad un risarcimento che metterebbe in ginocchio la mia famiglia. Sono sicuro che i miei colleghi sono alle prese con i miei stessi pensieri. Un ginecologo, un pediatra, due anestesisti, tre ostetriche, tutti quelli che erano in quella stanza adesso stanno condividendo la mia stessa preoccupazione, ne sono certo.
Assurdo. Ho fatto tutto quello che potevo e dovevo fare, come i miei colleghi, ma ho paura che le mie azioni possano essere prese in esame da un magistrato e che possa essere magari trovata un’inezia, un cavillo, magari una frase scritta non chiaramente in cartella clinica, che possa sconvolgere la mia vita e quella dei miei cari. Probabilmente già domani la morte di questo bambino finirà sul giornale, ne parleranno i notiziari, arriveranno i commenti sui social. Si dirà che è malasanità, perché un neonato al termine di una gravidanza fisiologica non può morire, che sicuramente qualcuno ha sbagliato e che chi ha sbagliato. dovrà pagare. Mi rendo conto di non avere fiducia in chi racconterà e commenterà questa storia, nemmeno ho fiducia nel giudice che si troverà a giudicare il mio operato e quello dei miei colleghi. Nemmeno i nonni che in sala d’attesa, arrabbiati, parlavano già di cause e di tribunale avevano fiducia in quello che avevamo fatto, nelle nostre competenze e nella nostra professionalità, lo riconosco.
Indubbiamente la situazione che porta alla morte di un neonato deve essere sottoposta a verifiche e controlli. Ad indagare devono essere, in primis, le autorità sanitarie, per analizzare i fatti ed essere certi che la morte non potesse essere evitata. Non mi sconvolge che si apra un fascicolo d'indagine.
Non è questo il problema. Purtroppo oggi qualunque atto medico è a rischio di condanna giudiziaria e sociale, soprattutto se le pressioni mediatiche e politiche alimentano un clima di diffidenza e di caccia al colpevole. In questi tempi, la spada di Damocle che pende sulla testa di noi medici è sempre più affilata e pesante, attaccata ad un crine di cavallo esile e sottile. La cosiddetta medicina difensiva pervade i pensieri e le azioni di tutti noi, con serie conseguenze sulla qualità delle cure fornite ai pazienti e sulla gestione dei sistemi sanitari. Ma anche sulle nostre vite.
Le possibili soluzioni al problema sono diverse, ma certamente fondamentale, secondo me, è il recupero del rapporto di fiducia, in primis nella relazione tra medico e paziente. La corretta informazione, la sincerità e la trasparenza sono basilari in questo, ne sono convinto. Mi domando se, nei nove mesi di gravidanza, qualcuno abbia mai parlato chiaramente con i genitori che ho incontrato oggi in sala parto, affrontando anche il tema dei rischi intrinseci del parto. Credo che né il medico di medicina generale, né il ginecologo lo abbiano fatto, credo che nemmeno ne abbiano parlato al corso pre-parto. Eppure il parto non è un evento esente da rischi, nonostante quello che scrivono le riviste o le pagine social. Forse il problema è che queste informazioni si cerchino sulle riviste o sulle pagine social.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno si registrano quasi 2 milioni di nati morti, uno ogni 16 secondi (l’OMS raccomanda di utilizzare il termine “nato morto” - stillbirth per definire il feto partorito, o estratto dalla madre, senza segni vitali con un’età gestazionale di 28 settimane o più). Oltre il 40% di tutti i nati morti si verifica durante il travaglio. I numeri più allarmanti, come è facile immaginare, riguardano i Paesi in via di sviluppo. Il rischio di morte intra partum in Africa, ad esempio, è superiore di 16 volte rispetto a quello dei Paesi dell'Europa occidentale.
Secondo il rapporto Euro-Peristat 2015-2019, la natimortalità (il tasso di natimortalità è il rapporto tra il numero di nati morti e il totale dei nati vivi e morti) nel 2019 era pari a 2,7 nati morti ogni 1000 nati a partire da 24 settimane di gravidanza in Italia, contro 3,2 della mediana europea (dall’1,8 dell’Estonia al 4,7/1000 di Cipro). Dal 2015 al 2019 il tasso nel nostro paese è sceso da 3,0 a 2,7 morti per 1000 nati e a livello europeo il decremento complessivo è stato contenuto e stimato pari a una riduzione di un punto percentuale annuo.
In Europa perdere un neonato in sala parto è dunque un evento raro. Poco probabile, ma possibile. Per quanto i sistemi sanitari e le competenze mediche e ostetriche possano migliorare, comunque il rischio di questo evento non potrà essere azzerato. Per quanto recenti, le azioni finalizzate ad azzerare la mortalità materna e neonatale e la natimortalità evitabile nel mondo oggi esistono, ed è logico pensare che porteranno a risultati concreti, soprattutto nei Paesi ad alto reddito come il nostro. Ma rimarrà sempre una percentuale, seppur bassa, di morti inevitabili in sala parto.
Viviamo in una società in cui si pensa che un bambino morto in sala parto sia sempre e solo un errore medico, un sintomo di malasanità. La famiglia vuole giustizia, i giudici emettono sentenze, i media cercano il titolo da prima pagina, i sanitari tremano, chi non sa e commenta schiuma rabbia.
Mi domando di chi sia il compito di rendere consapevoli i futuri genitori dei rischi legati al parto. Mi chiedo chi debba informare in modo efficace la comunità sulle azioni in atto per diminuire il numero di nati morti. Mi interrogo su chi debba battere i pugni sul tavolo perché le agende politiche affrontino questo tema e quel che vi ruota intorno, ad esempio in termini di costi psicologici per le famiglie. Mi domando cosa ne sappiano di sanità quei sindaci che si mettono in testa a cortei di manifestanti per protestare contro la chiusura di quei piccoli centri nascita che fanno un numero bassissimo di parti l’anno.
Mi chiedo se non abbia ragione lei. Un medico che ha appena assistito un neonato morto dovrebbe provare solo dispiacere, rabbia e frustrazione, non preoccupazione per una eventuale causa giudiziaria.