Si chiama Nicolas

Nicolas, medico reumatologo, sta lavorando senza sosta in due ospedali della regione Grand Est, nel nord della Francia. La sua storia inizia trent'anni fa, ma ha un nuovo inizio trenta giorni fa. Si chiama Nicolas, ma il suo nome non è importante.

La storia personale di un medico reumatologo impegnato nell’unità COVID-19 del suo ospedale

Nicolas, medico reumatologo, sta lavorando senza sosta in due ospedali della regione Grand Est, nel nord della Francia. La sua storia inizia trent'anni fa, ma ha un nuovo inizio trenta giorni fa. Si chiama Nicolas, ma il suo nome non è importante. La sua storia è quella di migliaia di medici.

Sembra passato un secolo

Il 25 febbraio una donna fa visita al padre ricoverato in Reumatologia, nel reparto in cui lavora Nicolas. Nel giro di poco, 5 dei 18 pazienti del reparto iniziano ad avere febbre. Sono tutti anziani, nessuno vaccinato contro l’influenza. A fine febbraio, la COVID-19 sembrava una malattia lontana. Iniziano a comparire le prime desaturazioni, si fanno le consulenze con gli pneumologi, si danno antibiotici. Senza risultato.
Dopo due giorni un paziente peggiora. Nicolas prova a convincere il SAMU - Service d'aide médicale urgente della necessità di un test per l’infezione da SARS-CoV-2. L’ospedale ne ha pochi disponibili. Col passare del tempo, Nicolas è sempre più convinto che quel paziente debba andare in terapia intensiva. n l'approssimarsi del fine settimana, Nicolas sta pensando di trasferirlo in terapia intensiva. Dopo poco il paziente viene intubato. Morirà nei giorni successivi. Per gli altri pazienti, Nicolas salta la procedura ed esegue i test autonomamente. Quattro test, tutti positivi.   
Il gruppo di lavoro, molto affiatato, viene decimato. Specializzandi, inservienti, infermieri, assistenti sociali, segretarie, dietisti. Il test viene fatto solo ai medici inizialmente, ed anche alle persone giudicate "strategiche". Nicolas ottiene dalla direzione che tutti gli operatori sintomatici del suo team possano essere testati. Più della metà dello staff del dipartimento è positivo, inclusi i tre specializzandi e lo stesso Nicolas. Dopo la quarantena, Nicolas decide immediatamente di entrare a far parte della nascente “Unità COVID-19”. Tutto succedeva a febbraio, sembra passato un secolo. Questo secolo ricorda a Nicolas un altro secolo.

I demoni

"Ho fatto questo sogno qualche giorno fa. Ero all’università, durante un esame, ma non riuscivo a rispondere alle domande”. Trent'anni fa, in realtà, Nicolas superò tutti i suoi esami a pieni voti. Il suo curriculum è stato tale da permettergli di scegliere la specialità che sognava: l'infettivologia.
Nel 1990 Nicolas si immaginava di diventare un medico francese alle prese con parassiti in terre lontane. Il suo primo viaggio, invece, durante il primo semestre di specialità, lo fece al quindicesimo piano dell’Institut Pasteur. Prima lavorò in un ambulatorio del servizio vaccinazioni, poi con i pazienti sieropositivi. "Mi hanno chiamato per sostituire un altro specializzando. Era crollato dopo tre settimane". La realtà di questo reparto da 30 posti letto era quella degli anni bui dell'AIDS e della spaventosa cifra che abbiamo dimenticato: la mortalità, quasi il 100%. "Morivano tutti. Parlavo con persone adorabili, designer, giornalisti. Il giorno dopo, erano morti".
Poi ci fu quella notte di guardia, durante la quale Nicolas vide un paziente morire asfissiato, un’agonia durata per oltre mezz'ora. Nicolas ricorda ogni dettaglio: "Aveva un’infezione da Pneumocystis carinii". Trent'anni dopo, il dubbio è lì, tenace. "Avrei potuto fare di meglio. Avrei dovuto scegliere farmaci per non farlo soffrire. Avrei dovuto usare il Valium". Nicolas aveva 24 anni. "Non sapevo come affrontare quella situazione", dice. Ma chi sapeva come gestire una grave insufficienza respiratoria acuta in quegli anni? Tutto succedeva prima delle linee guida, prima del midazolam. Era il tempo dei "cocktail litici", di cui nessuno parlava. Altri tempi, altre infermiere, spesso delle religiose che per convinzione si rifiutavano di somministrare morfina. "Ho poi scoperto che cambiavano le mie prescrizioni. Io non avevo grande autorità".
Di quella notte Nicolas non osò dire nulla al primario. Ha tenuto duro, da solo. La sofferenza degli operatori esisteva già, ma non ancora il supporto psicologico. "Non ero tanto forte, non ero pronto per questo, ma ho resistito, fino all'ultimo giorno. Poi ho mollato".
Interruzione del lavoro, Prozac, cambio di specialità. I sogni del giovane specializzando si infransero davanti a quei 30 letti. Il suo slancio umanitario troverà soddisfazione a Lille, qualche anno dopo, facendo il medico volontario nell’assistenza ai senzatetto e alle donne maltrattate.   
Ai tempi dell’Institut Pasteur il suo direttore sanitario era Gilles Pialoux. "Lo amavo molto. Rivederlo in televisione, 30 anni dopo, nel bel mezzo di un'epidemia, mi ha riportato indietro nel tempo”. Nicolas sa che questa epidemia non durerà quanto l'epidemia di HIV. Ma sa anche che avrà un impatto drammatico e brutale. Questa volta Nicolas sarà pronto.   

Il deserto dei Tartari

Prima di riprendere il servizio, Nicolas si è tagliato fuori dai social network. Ha studiato le ultime ricerche sul nuovo coronavirus e poi ha passato alcuni giorni in pneumologia per aggiornarsi. "È  come nel libro Il deserto dei Tartari. È tranquillo, aspettiamo, ci prepariamo. Sappiamo che succederà".  
Nicolas ha due parole d'ordine. Lavorare con rigore e in modo collegiale. L'ego non ha posto qui. "Abbiamo votato per l’uso della clorochina e finora è un no". Il reumatologo nota con amarezza che i suoi pazienti in cura con Plaquenil non riescono più a trovarne nelle farmacie.
"Quando si tratta di criteri di idoneità per la terapia intensiva, cerchiamo di essere tutti perfettamente d'accordo. Sarebbe terribile se questo tipo di decisione dipendesse da quale medico è di turno in quel momento". I medici lavoreranno così nei diversi reparti COVID-19 della Francia, per standardizzare le pratiche. Si scambieranno protocolli di cure palliative da tutta la Francia. Questa volta Nicolas non è solo.
Da fine marzo Nicolas è in servizio nell’area COVID-19 dell’ospedale. In una zona sono raggruppati pazienti di due tipi: quelli che non hanno bisogno di essere intubati e quelli che non potranno essere intubati.  In un’altra zona sono sistemati i pazienti che hanno diritto alla rianimazione, da qui possono essere trasferiti in terapia intensiva in pochi minuti. Nicolas si alterna tra tutti questi pazienti.

Insieme, a tutti i costi

"Ho scelto di lavorare in un ospedale, non è stato un caso. Avrei potuto lavorare in qualsiasi altro posto, ma ho scelto di lavorare in un ospedale”. Queste non sono le parole di un operatore sanitario qualsiasi, ma della direttrice dell’ospedale. Anche lei è entrata a far parte del gruppo WhatsApp creato dai medici per coordinare il lavoro. Le barriere stanno cadendo. "Ci ha mostrato tanta gratitudine. Stiamo apprezzando molto il lavoro del management". Nicolas è ottimista: anche da questa crisi uscirà qualcosa di buono.
“I chirurghi, chiuse le sale operatorie, non volevano stare con le mani in mano. Hanno iniziato a fare lavori amministrativi o a portare le barelle. Si sono messi a disposizione In terapia intensiva, avevano bisogno di braccia per mettere i pazienti in posizione prona. È pesante, richiede tempo". Chirurghi e inservienti che lavorano fianco a fianco nel bel mezzo della tempesta. Nella tempesta si creano legami forti. "Ce n'è uno che si è offerto volontario subito. È un medico anziano. Si assicura che le misure di protezione siano rispettate. Si occupa anche dei rapporti con le famiglie. Questo è essenziale. Le famiglie non possono vedere il corpo del parente, ma possono salutarlo quando è ancora vivo. Per questo, quando sappiamo che un paziente ha poco tempo, lui chiama i familiari per poter dare loro l’occasione di vedere il loro caro per l’ultima volta”.
Nel settore COVID-19 non ci sono più specialità. "Siamo diventati tutti medici delle cure palliative". Come i suoi colleghi, Nicolas ha cambiato professione. Con loro, condivide le paure. Dominique è un medico fisiatra. La notte prima del suo turno non riusciva a dormire. Per lei il fantasma non è l'HIV, ma il colera in Africa. "Aveva paura di non essere all’altezza". È stato Nicolas a guidarla il suo primo giorno. Il giorno dopo, a sua volta, lei ha aiutato un diabetologo. Sono nove i medici che si alternano nei turni. Le stesse paure, gli stessi dolori. "La prima sera sono andato a casa, mi sono chiuso in una stanza, ho pianto".  

"È nato in un campo di concentramento"

Ci sono anche buone notizie. Due pazienti, troppo anziani per il reparto di terapia intensiva, che finalmente si stanno riprendendo e tra poco saranno dimessi.
E poi ci sono i morti. Il suo primo giorno nell’area COVID-19, Nicolas aveva in gestione 3 pazienti. Uno è morto dopo un quarto d’ora dal suo arrivo. "Conoscevo uno di loro". Per dare la notizia alla moglie, Nicolas si prende del tempo da passare al telefono.    
Mezz’ora anche per annunciare a un uomo la morte di suo fratello. "Gli ho chiesto di parlarmi della vita del paziente. Ho saputo che aveva sconfitto due tumori e ne stava combattendo un terzo. Era nato nel 1944 in un campo di concentramento in Cecoslovacchia dove i suoi genitori erano stati deportati. In seguito ha lavorato come saldatore". Bisognava dire a quest'uomo che suo fratello non aveva sofferto. Bisognava dirgli che questo fratello non era solo un altro morto in una bara anonima. Che non sarà mai solamente un numero per la statistica.


Fonte: Blanquart B. Il s'appelle Nicolas. Esanum France. 07/04/2020