Per nuove sfide serve una nuova Medicina Generale

Intervista al Dr. Giuliano Piccoliori, medico in Alto Adige e responsabile scientifico dell’Istituto di Medicina Generale e Public Health di Bolzano sulla situazione attuale e sul futuro della Medicina Generale.

Intervista al Dr. Giuliano Piccoliori*

Durante la pandemia di COVID-19 il carico di lavoro dei medici e di tutti gli operatori sanitari è aumentato notevolmente. In particolare, la pressione dell’emergenza sanitaria è stata, ed è ancora, elevata sui medici di Medicina Generale, capaci comunque di fronteggiare la situazione, nonostante le carenze strutturali e le difficoltà contingenti. Eppure, i medici di Medicina Generale continuano ad essere additati da una parte di opinione pubblica e da alcuni mass-media come l’anello debole del Servizio Sanitario Nazionale. Sui social media c’è chi addirittura si affida a gruppi di auto-terapia per far fronte alle presunte carenze del proprio medico curante, mettendosi nelle mani di (presunti) medici sconosciuti. Abbiamo parlato dell’argomento con il Dr. Giuliano Piccoliori, medico di Medicina Generale in Alto Adige e responsabile scientifico dell’Istituto di Medicina Generale e Public Health di Bolzano.

Che impatto ha avuto la pandemia di COVID-19 nel lavoro del Medico di Medicina Generale?

Dovessi rispondere con una sola parola direi devastante. Ci siamo dovuti confrontare con qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto, imparando a modificare nel giro di poche settimane le nostre conoscenze e procedure. Abbiamo cambiato l’organizzazione del nostro lavoro. Tutti o quasi abbiamo introdotto un sistema rigido di appuntamenti su prenotazione telefonica per evitare assembramenti e diffusione del virus. Alla nostra attività quotidiana, che già prima della pandemia era decisamente impegnativa, si è aggiunta la gestione dei pazienti COVID-19 o con sintomatologia suggestiva di COVID-19. Chi ha sintomi di COVID-19 viene prima di tutto sottoposto a tampone, da noi in ambulatorio se la struttura lo consente o altrimenti in altra struttura pubblica. I risultati dei tamponi devono poi essere riportati sulla piattaforma provinciale. In caso di positività inizia il monitoraggio della sintomatologia e la terapia adeguata al singolo caso. Quindi il contact tracing, che più di una volta ha creato tensioni con i pazienti che non vogliono essere segnalati come contatti stretti, per motivi che si possono immaginare. Altro carico di lavoro è arrivato dalla campagna vaccinale. Tutti stiamo informando i nostri pazienti, c’è poi chi ha voluto partecipare direttamente alla somministrazione dei vaccini. Io ritengo che percentualmente il nostro carico di lavoro è aumentato del 30-40% in media.
Un lavoro che abbiamo scoperto amaramente essere tutt’altro che sicuro. Rischiamo noi in prima persona e i nostri familiari. E questo rende tutto ancora più pesante.

La pandemia ha evidenziato l’esistenza di distanze (fisiche, comunicative, …) tra la medicina territoriale e l’ospedale. Come è possibile accorciarle?

Io non mi sento di dire che la pandemia abbia evidenziato l’esistenza di difficoltà comunicative o anche di rapporto tra ospedale e territorio. Queste difficoltà erano già ampiamente note, oramai da decenni, e continuamente denunciate. Io credo che il motivo principale di queste difficoltà risieda nel fatto che la Medicina Generale, interprete principale delle cure primarie, continui, in Italia e oramai solo in Italia, a non essere considerata una disciplina accademica al pari delle altre branche della medicina. Non la si insegna durante il corso di laurea e non è un corso di specialità. C’è quindi da parte ospedaliera una scarsa conoscenza e purtroppo spesso considerazione della Medicina Generale. Forse esiste anche un complesso inespresso di inferiorità rispetto alle altre discipline. Purtroppo anche tra i neolaureati il corso di formazione specifica in Medicina Generale viene vissuto ancora come una seconda o terza scelta, se non addirittura una scelta di necessità. Di conseguenza, spesso manca tra i nuovi medici di famiglia la dovuta consapevolezza ed il giusto orgoglio per la propria professione. Ristrutturando la base, ovvero partendo dalla formazione dei medici, si potrebbe iniziare a colmare questa distanza tra ospedale e territorio. Non è solo una questione di strutture o risorse, è anche una questione di mentalità. Il medico di Medicina Generale deve avere pari dignità degli altri specialisti, agli occhi degli altri specialisti, agli occhi dei pazienti, in primis ai suoi stessi occhi.

Cosa cosa pensa dell’esperienza delle USCA durante questa pandemia?

Nella mia zona le USCA non sono mai partite perché abbiamo continuato ad occuparci a domicilio dei nostri pazienti. A marzo 2020, quando noi eravamo in zona rossa ed avevamo centinaia di pazienti a testa ammalati di COVID-19 e noi stessi ci ammalavamo uno dietro l’altro, quando quindi ne avremmo avuto davvero bisogno, le USCA non erano state ancora concepite.
A mio parere le USCA rappresentano il fallimento della medicina territoriale. Una medicina primaria organizzata in senso anglosassone, con medici associati con forte dotazione di personale amministrativo ed infermieristico, sarebbe stata benissimo in grado di farsi carico autonomamente dei pazienti COVID-19. Questo è avvenuto ad esempio in Germania ed in Austria, Paesi che conosco molto bene.

 

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"Servono forme organizzative complesse che raccolgono all’interno di una stessa struttura più medici di Medicina Generale insieme a personale amministrativo ed infermieristico, con l’aggiunta possibilmente anche di altri professionisti, quali ad esempio fisioterapisti e psicoterapeuti" (Dr. Giuliano Piccoliori)

 

Durante questa pandemia abbiamo anche assistito al proliferare sui social network di gruppi di aiuto reciproco per chiedere diagnosi e terapie online. In alcuni di questi gruppi sembrerebbero essere presenti medici. Si presenta il problema sulla piattaforma e poi, via chat, un medico contatta la persona e le fornisce un consulto. Alla luce della sua esperienza e dei suoi studi, come fa un medico a curare chi non conosce? E poi, come fa un paziente a fidarsi di qualcuno che non conosce?

Questo è un fenomeno incredibile. Questi gruppi pretendono di gestire e curare persone affette da una malattia ancora in parte sconosciuta senza averle mai viste, senza conoscere la loro storia se non in base ad un’anamnesi che ovviamente non può essere completa ed esaustiva. Ma la cosa ancora più incomprensibile è che ci siano dei pazienti che si affidano a loro. Noi abbiamo bisogno di anni di conoscenza dei nostri pazienti per poter pensare di gestire a volte qualche problema minore via telefono ed invece con questi gruppi si pretende di curare una malattia così insidiosa come la COVID-19.
Per fortuna nel 95% dei casi, come sappiamo, il decorso della COVID-19 è benigno e la guarigione è spontanea. C’è però un 5% che ha bisogno di un riconoscimento precoce, di cure immediate basate sulle prove di efficacia di centinaia di studi condotti in tutto il mondo, di un monitoraggio costante che può solo avvenire in ambito ospedaliero, dove come sappiamo può rendersi necessaria l’ossigenoterapia, la ventilazione assistita fino all’intubazione per salvare la vita delle persone. C’è il rischio concreto che le “cure” fornite da questi gruppi per le cure domiciliari ritardino fatalmente il ricorso alle cure adeguate oppure facciano danno consigliando farmaci senza nessuna efficacia, ma certo non innocui come il plaquenil o l’ivermectina.

Quali responsabilità hanno i medici, se ne hanno, nell’aumentata crisi di fiducia dei pazienti nei confronti del proprio medico?

Bisogna riconoscere che, in qualche modo, questi gruppi online, queste organizzazioni, vanno a colmare una carenza di fiducia e di attività della medicina primaria. Evidentemente non siamo riusciti a conquistare o a mantenere la fiducia di tutti i nostri assistiti, e di nuovo la causa è un’organizzazione del nostro lavoro obsoleta ed insufficiente a far fronte non solo all’emergenza pandemica ma anche all’assistenza ai malati cronici, ai fragili, ai palliativi nel senso più ampio del termine.
Io credo che il problema sia di contesto e di struttura. Nella prima fase della pandemia, ad esempio, i medici di medicina generale, non potevano neppure svolgere il loro ruolo perché mancavano completamente i dispositivi di protezione quali mascherine, tute, disinfettanti, guanti. In quei frangenti la popolazione non sempre capiva che, senza proteggere se stesso, il medico avrebbe messo in pericolo i propri pazienti, diventando egli stesso un vettore di infezione. I pazienti mi rimproveravano di non visitarli, eppure a marzo dello scorso anno io ero a casa, con la COVID-19, a gestire 90 telefonate al giorno. I pazienti pensavano non volessimo fare la nostra parte, così come molti sono stati disorientati dai continui cambiamenti di protocolli. La medicina è una scienza viva, in continua evoluzione. Noi lo sappiamo, loro no. Forse bisogna anche ripensare la comunicazione che riguarda la medicina. La fiducia dei nostri pazienti è alla base della nostra professione. Per riconquistarla e mantenerla nel tempo serve ridefinire il contesto e la struttura in cui operiamo.

Che ruolo ha oggi il medico di medicina generale nel panorama sanitario italiano?

Il medico di Medicina Generale continua ad essere il professionista di riferimento per ogni problema di salute, è il gatekeeper, il filtro tra cittadino e sistema sanitario ed al tempo stesso il tutore, il coordinatore del paziente all’interno del SSN. Il suo ruolo è molto complesso perché si trova ad affrontare uno spettro vastissimo di problemi, spesso in una fase iniziale e quindi ancora più difficili da inquadrare. È certamente il medico deputato ad occuparsi dei malati cronici che hanno quasi sempre più patologie, è l’unica figura medica che può veramente fare prevenzione primaria, educazione sanitaria, profilassi.

Il Recovery Plan delinea un nuovo futuro per la Medicina Generale (Community Health House, assistenza domiciliare, ospedali di comunità). E' la strada giusta?

Sono vent’anni che sento parlare di organizzazioni complesse della Medicina Generale. Sono state chiamate nei modi più svariati: UCCP, UTAP, MGI, Case della salute ed adesso Case di Comunità. Alla fine si tratta sostanzialmente sempre della stessa cosa, di forme organizzative complesse che raccolgono all’interno di una stessa struttura più medici di Medicina Generale insieme a personale amministrativo ed infermieristico, con l’aggiunta possibilmente anche di altri professionisti, quali ad esempio fisioterapisti e psicoterapeuti. Sono le practice anglosassoni, che esistono da mezzo secolo. Sono però anche le case della salute spagnole e portoghesi, sono le unità di cure primarie austriache, una delle quali ho visitato proprio questo fine settimana.
In Italia si è tentato a più riprese di introdurre queste forme complesse, che certamente vanno nella direzione giusta. Per ragioni che non riesco a comprendere totalmente però non si affermano completamente e raccolgono solo una percentuale marginale dei medici di Medicina Generale. In Veneto, eccezione, il 20% dei medici di Medicina Generale fa parte delle MGI (Medicina di Gruppo Integrata). Eppure sappiamo che chi ci opera non tornerebbe più indietro e che anche i pazienti sono soddisfatti. Inoltre si ridurrebbe il ricorso inappropriato al Pronto Soccorso e agli specialisti. Credo che queste forme vadano incentivate ancora di più, pur mantenendo la possibilità degli ambulatori periferici in zone isolate. Altrimenti la Medicina Generale rischia l’estinzione.
I medici devono fare i medici, occuparsi dei loro pazienti. A fare altro devono pensarci altri. Oggi molti medici non riescono a dare il massimo con i loro pazienti perché sono oberati da mille altre incombenze gestionali ed amministrative. Non credo che il problema stia nell’inquadramento professionale, il problema non è se fare il dipendente del SSN o se fare il libero professionista. È un problema di forma mentis, di nuovo. Bisogna abbandonare l’idea romantica del medico che da solo, con la sua valigetta di cuoio, è in grado di curare i suoi pazienti. Questo medico non è in grado di affrontare le nuove sfide che gli si paiono davanti. Serve insegnare la Medicina Generale così come si insegnano le altre specialità mediche, che abbia pari dignità. Serve un nuovo contesto, nel quale il medico di Medicina Generale lavori fianco a fianco con altri medici e altre figure fondamentali sanitarie e di supporto. Serve investire in strutture e tecnologia. Uno studio di Medicina Generale deve avere un ecografo e un elettrocardiografo, non si può pensare di fare senza per un primo inquadramento diagnostico di molti pazienti. Solo così si può pensare di farsi carico dei pazienti cronici, dei pazienti fragili (non necessariamente cronici), dei pazienti palliativi (che non sono solo i malati oncologici). Questi pazienti rappresentano la vera sfida per la Medicina Generale, perchè questi pazienti devono uscire dagli ospedali ed essere curati sul territorio. Riorganizzare il sistema sanitario significa investire meglio energie e risorse, ma soprattutto curare meglio i nostri pazienti. E questa riorganizzazione può essere efficace solo se riparte dalla Medicina Generale.
 

* Giuliano Piccoliori è medico di Medicina Generale in Alto Adige e responsabile scientifico dell’Istituto di Medicina Generale e Public Health di Bolzano. In precedenza ha ricoperto anche il ruolo di Direttore dell‘Accademia Altoatesina di Medicina Generale (AcAMG), che era responsabile dello svolgimento della formazione triennale in Medicina Generale e coinvolta in diversi progetti di ricerca sui servizi sanitari locali ed internazionali.