Un giorno qualunque in una terapia intensiva. Una grande stanza con dei letti in cerchio, e, in mezzo, la centralina dei monitor, il cuore del reparto, dove vi sono i computer, le cartelle e tutti i documenti sanitari.
Al letto 3 Giulio, 50 anni, caduto mentre andava in moto dopo aver esagerato con gli alcolici alla fine di un pranzo della domenica in collina. Ha le costole rotte e un drenaggio nel torace, ha subito un intervento al bacino, ma nel complesso può ritenersi fortunato: la testa è ancora tutta intera e il resto non ha riportato danni gravi, niente di preoccupante quindi. Gli hanno detto che appena respirerà meglio potrà lasciare il reparto. Giulio ha uno smartphone, la sua unica modalità di contatto col mondo esterno all’ospedale in questi tempi in cui i parenti non possono fare visite ai ricoverati. Quando non è nel casco per respirare trascorre il tempo su internet tra messaggi e video. Giulio è dolorante e infastidito, stanotte non ha dormito. Al letto di fronte hanno ricoverato un altro paziente, hanno fatto un sacco di rumore, allarmi che suonavano, luci accese. Un altro incidente, lo sa perché stamattina è stata pubblicata la notizia sui canali social del giornale locale. Non gli è difficile immaginare che il suo sventurato compagno sia il conducente di quella moto tutta rotta vista su Instagram.
Alla centralina Lucia, il medico smontante, finalmente saluta i colleghi del mattino: è stanca, ha lavorato tutta notte sul nuovo ricovero. C’è voluto parecchio per stabilizzare il paziente.
Giulio ascolta distratto le chiacchiere dei medici, più per noia che per curiosità. Sa che a quest’ora si trovano nella “centralina” per salutarsi in attesa della riunione mattutina. Cerca di distrarsi e pensare a dormire quando ad un certo punto un particolare attira la sua attenzione.
«Sai che stanotte mi hanno davvero rotto?» dice Lucia
«Ancora? Dai, davvero, non se ne può più!» risponde il collega.
«Non me lo dire, con tutto quello che avevo da fare continuavano a interrompermi».
Senti questi! Pensa Giulio. Che modo di parlare delle persone, ma siamo matti!?! Preme il tasto messaggio vocale del suo cellulare, registrando per la moglie la conversazione che nel frattempo va avanti.
«È davvero troppo non se ne può più, sono davvero fastidiosi» rincara Lucia.
«A quello del letto 6 l’altra notte avrei tirato un pugno per farlo stare zitto».
«Eh, poi ti tocca passare i guai ed anche smenarci dei soldi».
«Si potrebbe trovare il modo di zittirli, almeno temporaneamente. Sappiamo come fare».
«Già… vorrei sapere perché nessuno ha ancora fatto niente, vorrei poter lavorare in pace, senza questi che mi trapanano il cervello senza motivo. Quello vicino al nuovo ricovero mi ha fatto uscire di testa».
Giulio interrompe la registrazione, scrivendo indignato alla moglie se anche a lei sembra il caso di parlare così delle persone… insomma se non ti piace il tuo lavoro cambialo, ma non è certo questo il modo di parlare dei loro pazienti, di uno poi appena ricoverato dopo un brutto incidente.
Lucia e i colleghi del mattino si alzano e vanno verso l’ufficio per il briefing. Lontano, nel corridoio, mentre Giulio non può sentire, fermano la caposala: «Gli allarmi dei monitor sono andati in tilt anche stanotte. Era già successo, per favore puoi sollecitare chi deve ripararli?».
Nello stesso istante la moglie di Giulio sente il messaggio e lo inoltra ad amici e parenti. Qualcuno le consiglia subito di farlo trasferire. Se sono capaci di parlare così dei loro pazienti, non c’è da fidarsi di quei medici. È mai possibile che si parli così dei malati in questa rianimazione? L’audio arriva sui social, qualcuno pensa di farlo arrivare ai giornali. La carica di indignati è pronta ad esplodere.
Questo racconto è inventato. Eppure non è inverosimile, a pensarci. Viviamo una quotidianità dove i pazienti sono sempre muniti di un dispositivo in grado di fare foto, registrare audio, filmare, addirittura tagliare e montare contenuti audio e video, e diffonderli istantaneamente ovunque, perdendone immediatamente il controllo. Un dispositivo che oggi, in tempi di restrizioni, è l’unico contatto dei pazienti col mondo esterno. Dispositivo che, anche quando riprenderanno le visite in ospedale, risulta difficile immaginare di togliere a un paziente. Uno strumento di cui quasi nessuno si priverebbe di questi tempi.
Nel clima di sfiducia e sospetto che si è creato ultimamente nei confronti dei medici, pensiamo che qualcuno avrebbe creduto a quei medici che sostenevano di parlare di allarmi e non di persone? Anche qualora l’ospedale avesse prodotto la fattura della riparazione dei monitor, probabilmente molte voci si sarebbero levate gridando alla “copertura” e all’insabbiamento della verità.
Quali strategie di difesa avrebbe un collega che viene registrato mentre pronuncia le parole non capisco che cos’abbia sempre da lamentarsi, tutto il giorno si lamenta, che noia non la sopporto più! (la suocera) o ancora chissà se ci si può guadagnare sopra qualcosa di più (l’auto usata)” e viene lapidato sui social? Probabilmente nessuna Direzione Sanitaria prenderebbe provvedimenti disciplinari per un filmato catturato da un paziente che, senza contesto, può essere interpretato in mille modi diversi. Probabilmente nessun giudice discuterebbe un caso in tribunale senza avere prove certe ed inconfutabili. La gogna mediatica, al contrario, sarebbe pronta e feroce, con le sue inesorabili conseguenze. Quello dei social network (e del web in generale) è un mondo spietato e volubile, dove le espressioni tutela della privacy e diritto alla difesa hanno poco valore. Il discorso non vale solo per gli ospedali e per chi ci lavora, certamente. Anche se, va detto, i luoghi di cura sono teatro di relazioni e dinamiche molto peculiari ed intense, tra gli operatori sanitari, tra pazienti, tra operatori sanitari e pazienti.
Una parola di troppo, decontestualizzata e amplificata sul web, potrebbe rovinare un professionista, anche se il fatto non sussiste. La pratica medica, da anni, è già vittima della medicina difensiva. Dobbiamo aspettarci anche che sia vessata dalla fobia degli smartphone?
Come sarà possibile lavorare bene, arginando stress e fatica, in un posto dove non ci si sente a proprio agio, dove bisogna pesare ogni parola? Che conseguenze potrebbero esserci per la cura ottimale dei pazienti? Può capitare di fare battute in un reparto di oncologia. Può capitare di parlare dell’Inter durante una appendicectomia. Può capitare di constatare un decesso e qualche minuto dopo parlare di vacanze. Può capitare di essere persone, oltre che medici. Senza mancare di rispetto a nessuno, nei limiti del buon senso e della deontologia professionale.