Tre anni fa, in risposta a uno studio altamente controverso che suscitò un dibattito acceso riguardo al concetto stesso di professionalità all'interno della medicina, si riversò su Twitter una forte ondata di indignazione. Tale studio, intitolato Prevalence of unprofessional social media content among young vascular surgeons fu condotto da ricercatori dell'Università di Medicina di Boston e venne pubblicato nel corso del 2020. L'obiettivo primario dello studio consisteva nel valutare l'entità e la natura dei contenuti "non professionali" diffusi sui social media da parte degli specializzandi in chirurgia vascolare.
Nel 2020, da più parti si sollevarono critiche allo studio, di cui vi riportiamo una sintesi.
Il primo problema sottolineato riguardava l'ambiguità della definizione di "professionalità medica". Si riteneva paradossale che uno studio incentrato sulla non professionalità non fosse mai riuscito a fornire una chiara comprensione di cosa costituisse un comportamento "professionale" o "non professionale" nel contesto medico. La mancanza di una definizione formale aveva portato all'utilizzo di due categorie di misurazione: "chiaramente non professionale" e "potenzialmente non professionale".
I contenuti chiaramente non professionali comprendevano:
I contenuti potenzialmente non professionali includevano:
Come si potrebbe definire una "chiara intossicazione da alcol"? Cosa si intende per abbigliamento "inappropriato"? Cosa si intende per "posa provocante"? Quali le misure dei bikini e delle magliette ritenuti inappropriati? Quand'è che una donna che guarda la macchina fotografica in bikini sta facendo "pose provocanti"? In che modo tenere in mano un bicchiere di alcol non è professionale?
Questa accozzaglia di comportamenti, scelti in modo soggettivo, non affrontava in modo diretto la domanda cruciale: cosa rappresenta veramente la "professionalità" in Medicina?
Considerando solo l'elenco di comportamenti considerati "non professionali," dall’articolo emergeva un'immagine del medico "professionale" come individuo rigidamente conformista e perfettamente in linea con norme conservative di etichetta e decoro. In questo contesto, i medici "professionisti" potevano esprimersi al di fuori dell'ambito lavorativo, a condizione che le loro espressioni pubbliche fossero in sintonia con interpretazioni tradizionali e conservatrici.
Il secondo problema evidenziato riguardava l'utilizzo di metodi "scientifici" per giustificare norme repressive radicate nella medicina. Il fatto che l'intero team che aveva valutato la professionalità dei contenuti sui social media fosse composto da uomini della stessa età, sarebbe dovuto essere motivo di preoccupazione riguardo a potenziali pregiudizi e discriminazioni nella valutazione delle norme di professionalità.
Dalle tabelle riportate nel documento emergeva che il 71% degli account di social media esaminati apparteneva a uomini. Tuttavia le donne avevano riscontrato un maggior numero di "contenuti non professionali" rispetto agli uomini (30% contro 24%). Questo era forse dovuto a un pregiudizio degli screener?
Nonostante queste problematiche, lo studio venne approvato da un comitato di revisione istituzionale e pubblicato su una rivista scientifica autorevole, oltre a essere presentato a una conferenza medica.
Il terzo problema sollevato riguardava il rafforzamento di condotte inappropriate sul luogo di lavoro e il trattamento etico degli specializzandi. I ricercatori avevano creato account social fittizi per raccogliere dati dai profili pubblici degli specializzandi, senza ottenere il loro consenso informato. Gli autori avevano giustificato questa metodologia sostenendo che i giovani medici avrebbero dovuto affrontare simili ingerenze nella vita privata nel loro quotidiano.
L’analisi evidenzia che l'approccio adottato nello studio rifletteva una consuetudine tossica in ambito medico, dove spesso ogni aspetto della vita, incluso ciò che avviene al di fuori del lavoro, può essere criticato e controllato "professionalmente".
L'articolo di Hardouin et al. provocò una protesta pubblica sui social media. In particolare, il criterio "abbigliamento inappropriato", definito come "foto in biancheria intima, costumi di Halloween provocanti e pose provocanti in bikini/costumi da bagno", fu considerato specificamente rivolto a giudicare le donne per ciò che indossano.
Con l'hashtag #MedBikini, molti medici iniziarono a postare su Twitter immagini di sé in costume da bagno, spesso sorseggiando un cocktail. In questo modo, comunicarono chiaramente che si può essere professionali e postare pubblicamente sui social media foto di momenti rilassanti.
Quello studio ritrattato, per molti medici, ebbe il merito di scoperchiare il vaso di Pandora. Mise in luce l’antiquata concezione della professionalità medica diffusa, l’incoerente immagine del medico proposta, i quotidiani pregiudizi di genere e le discriminazioni che molti medici affrontano sul campo.
Diversi medici sottolinearono che la "professionalità" in Medicina è un termine che spesso viene usato da chi detiene il potere, che spesso è bianco e maschio, per controllare le azioni di donne, persone non bianche e persone che si identificano come LGBTQ+. Molti medici sottolinearono che la “professionalità” in Medicina non doveva più assimilarsi ad un linguaggio codificato per indicare la vicinanza a standard maschili cis, etero, bianchi, abili e anziani.
"Una donna può avere bellezza e cervello" (photocredit: dr.skarlet, Instagram)
Lentamente, l'ambito sta diventando più diversificato. Le donne stanno superando gli uomini nelle scuole di medicina. Anche il numero di studenti di medicina di colore è in graduale aumento. Una nuova generazione di medici sta sfidando la vecchia immagine del dottore uomo, in cravatta, con il camice bianco perfettamente stirato, la borsa di cuoio, contestando alcune delle vecchie norme e presupposti della professione, che non rappresentano più la realtà dei fatti.
Tuttavia, sono in molti a non accorgersi di questa rivoluzione in atto. In Italia, nel 2022, fecero discutere le dichiarazioni del Presidente dell’Ordine dei Medici di Padova, Dott. Domenico Crisarà: “Profili social pubblici in cui medici postano foto delle vacanze e compaiono in costume da bagno: anche questo è sbagliato. Un medico lo è sempre, anche quando non è in servizio. Tutto quello che fa, che dice o che posta, deve essere consono alla professione che rappresenta. Vedere un medico in abbigliamento non consono è poco decoroso e delude profondamente il potenziale paziente”.
Anche allora, l’indignazione sui social media fu veemente. Bene, ma non benissimo. A nostro parere la sola indignazione online non è sufficiente per cambiare le cose. I medici dovrebbero iniziare ad esaminare profondamente il loro ruolo nella società attuale. Il problema della professionalità medica richiede un approccio più complesso e strutturale per un cambiamento reale. Noi auspichiamo che il movimento #MedBikini prosegua, andando oltre la pubblicazione di post sui social media. Ci auguriamo che, esaurita l’indignazione online, i medici utilizzino questa occasione per avviare un miglioramento reale e duraturo.