I medici non dovrebbero nascondere le proprie emozioni davanti ai loro pazienti
In un articolo pubblicato su The Washington Post il dr. Jalal Baig, onco-ematologo, racconta la sua esperienza personale con un paziente affetto da glioblastoma. Nella riflessione si mette in discussione il modello del medico impenetrabile alle emozioni, imperturbabile, saggio ed infallibile. Vi pubblichiamo qui un estratto tradotto del post in questione.
Il tumore al cervello del signor C. aveva ormai raggiunto lo stadio terminale. Sua moglie aveva chiamato in preda al panico per segnalare i nuovi sintomi che erano insorti nonostante il trattamento in corso: confusione, difficoltà nel parlare, deficit visivi. Ci siamo organizzati in fretta per fare una risonanza magnetica che ha confermato il sospetto che avevamo: le cellule tumorali avevano invaso parti del cervello precedentemente non colpite.
Nei miei 10 anni come medico e studente di medicina, sono stato testimone di sofferenze umane smisurate e tragedie inaspettate. E le emozioni associate a queste esperienze sono rimaste in gran parte sommerse nel mio animo, perché negli anni avevo costruito una diga per contenerle e per evitare che influenzassero il mio lavoro quotidiano.
Ma il signor C. mi ha cambiato. L'etica medica sottolinea che l'impassibilità è una virtù per i medici, ma io non potevo più negare le mie emozioni mentre mi prendevo cura di lui.
La sua storia medica è stata sfortunata. Il signor C. aveva già affrontato due tumori, due astrocitomi per la precisione. Poi era arrivato il glioblastoma, che in meno di un anno aveva vinto i tentativi terapeutici per contenerlo.
Niente di tutto questo doveva succedere al signor C. Aveva 31 anni ed era statisticamente troppo giovane per un cancro del genere. Era anche papà di tre figli di 4, 2 e 1 anni.
Per me, come oncologo, la prognosi cupa del signor C. era difficile da mandar giù. Per me, diventato padre da poco, inaccettabile.
Questi pensieri mi tormentavano mentre esaminavo il signor C. e prendevo nota di tutte le facoltà di cui il tumore crescente lo privava. In quel momento, ho sentito qualcosa che non avevo mai sperimentato prima nella stanza di un paziente: lacrime agli occhi.
Si ritiene che la spersonalizzazione prevenga la contaminazione del rapporto paziente-medico dalle emozioni e garantisca un impegno di obiettività. Questo preserva anche il vecchio archetipo del medico infallibile, imperturbabile e saggio.
In questo contesto, il pianto è visto come un comportamento emotivo estremo che dimostra instabilità e incapacità di affrontare situazioni difficili come la malattia e la morte. Come ha osservato il medico Paul Rousseau in un articolo del 2003 sull'American Journal of Hospice and Palliative Medicine, "Piangere è stato equiparato a inadeguatezza, debolezza personale ed emotiva, incompetenza e comportamento non professionale". E sebbene ci si renda conto che può inevitabilmente accadere, ci si aspetta che il pianto si svolga in solitudine, nei parcheggi a fine turno o sulle scale, tra un piano e l’altro, tra una consulenza e l’altra.
Nonostante le condanne, gli studi dimostrano che in medicina le lacrime esistono. Uno studio del 2009 ha evidenziato che il 69 per cento degli studenti e il 74 per cento dei medici in formazione ha dichiarato di piangere per questioni inerenti alla medicina. Specialisti come gli oncologi pediatrici hanno riportato il pianto come parte essenziale della loro gamma di reazioni alla morte del paziente.
È difficile non aspettarsi che il dolore emerga da una professione la cui sfida principale è quella di evitare la morte il più a lungo possibile. E purtroppo per molti medici, questa è una battaglia che si perde quasi quotidianamente.
Il dolore che risulta da una prognosi sfavorevole o da una prematura scomparsa può essere reindirizzato, soppresso o compartimentalizzato, ma i suoi effetti persistono. Nel migliore dei casi, ti lascia indifferente a ulteriori sofferenze, e nel peggiore dei casi si manifesta, penetra nella tua vita personale e lentamente erode la tua resilienza emotiva.
Uno scambio emotivo è inevitabile finché gli esseri umani si prenderanno cura di altri esseri umani.
Le mie lacrime per il signor C mi hanno salvato permettendo di fare i conti con gli anni di dolore accumulati. Invece di sminuirmi come medico, mi rimane una prospettiva meno netta della vita, un maggiore apprezzamento per la fallibilità e i confini della medicina, e un rinnovato impegno verso i miei pazienti. L'aspetto più importante è che ora mi aspetto di essere un padre ancora migliore per nostro figlio.
Le lacrime comunicano l'umanità di un medico e segnalano che la malattia è un'esperienza condivisa. Non sorprende quindi che i pazienti desiderino cure da parte di medici che sentono profondamente le loro emozioni e che i risultati clinici siano migliori quando i medici sono emotivamente coinvolti nelle cure che forniscono.
La lezione qui è semplice: anche se trattiamo sempre i nostri pazienti con gli stetoscopi, a volte sono solo i cuori pulsanti sotto i nostri camici bianchi li cureranno veramente.
Fonte: Jalai Baig. Why crying over a terminal patient made me a better doctor. The Washington Post. 2019 February 24.