Dr. Vergano: "Fin qui tutto bene" - Fine vita e scelte etiche

<p align="justify">Il Dr. Marco Vergano è un anestesista-rianimatore del reparto di terapia intensiva del San Giovanni Bosco di Torino.</p>

Cos'è il fine vita?

Dr. Vergano, cosa si intende per fine vita?

Esistono diverse definizioni accademiche di “fine vita”. Alcuni considerano morente una persona che ha meno di sei mesi di aspettativa di vita a causa di una diagnosi certa di malattia con prognosi infausta. Per altri è morente la persona che ha un’aspettativa di vita molto più breve, nell’ordine delle ore o di pochi giorni.
Al di là della tempistica, che può essere di ore, giorni, settimane, è abbastanza intuitivo cosa sia il fine vita: si tratta dell'ultima parte della vita di una persona affetta da una patologia o da una condizione inguaribile in fase avanzata con andamento ingravescente ed esito letale.

Secondo la sua esperienza, il fine vita viene percepito da tutti i medici allo stesso modo?

A mio parere la percezione del fine vita è differente tra i vari medici. Ogni medico specialista svolge la sua professione in ambiti diversi, le esperienze sono quindi diverse. Ci sono medici che, per la natura della loro specializzazione, hanno a che fare raramente con il fine vita. Altri, invece, lavorano in un contesto in cui il fine vita è molto più presente. Tra questi, poi, io credo che ci siano ulteriori differenze di percezione, sempre determinate dalle diverse esperienze professionali. Oncologi e rianimatori sono medici che spesso si trovano ad affrontare la parte finale della vita dei loro pazienti, ma la loro percezione è certamente diversa.

Come percepisce il fine vita chi come lei lavora in terapia intensiva?

La maggior parte dei pazienti ricoverati in terapia intensiva è in condizioni molto critiche e l’esito delle terapie è spesso incerto. Alcuni hanno in partenza più possibilità di recupero, altri meno, ma tutti sono potenzialmente in una situazione di fine vita. Noi sosteniamo le funzioni vitali con il trattamento intensivo, con tutte le risorse disponibili e cerchiamo di ripristinare le varie insufficienze d'organo.
Rispetto ad altre specialità noi abbiamo sicuramente una scala temporale molto più compressa. I nostri pazienti rimangono ricoverati per pochi giorni, raramente si va oltre le due settimane. Quando il paziente oncologico non ottiene beneficio dalla terapia e la malattia avanza progressivamente, il paziente viene accompagnato per settimane o mesi nel suo percorso di fine vita. Invece il paziente critico in terapia intensiva non responsivo alle cure che smette di essere sostenuto artificialmente nelle sue funzioni vitali, ha un periodo di fine vita molto breve, parliamo di qualche ora, al massimo di un paio di giorni.

Pazienti sul nastro trasportatore

La diversa percezione del fine vita da parte dei vari specialisti può determinare problemi nella gestione dei pazienti?

La situazione è certamente complessa, ci sono diversi fattori in gioco, ma è abbastanza comune che, di fronte ad un paziente fragile di 95 anni con un grave evento acuto, con comorbidità croniche ed uno stato funzionale compromesso ci sia chi pensa si debba investire ogni risorsa per curarlo e contemporaneamente chi pensa che lo si debba solo accompagnare alla morte. Molti colleghi riconosceranno l’immagine del rianimatore che frena gli altri specialisti che chiedono per i loro pazienti l’accesso alla terapia intensiva. Ma a volte succede che siano gli stessi intensivisti a non usare in modo appropriato le risorse intensive.

Bisogna parlare più spesso di appropriatezza delle cure, di proporzionalità degli interventi, di qualità della vita. C’è un’immagine che negli ultimi anni ricorre frequentemente in letteratura medica quando si trattano questi argomenti. È l’immagine del nastro trasportatore, su cui il paziente viene sistemato e segue un percorso definito, senza interruzioni1. Il paziente di 95 anni cui accennavo prima oggi accede in Pronto Soccorso per un ictus, per una polmonite, per qualunque evento acuto e viene posto sul nastro trasportatore che, passando attraverso esami ematochimici, imaging, consulenze varie ed eventuali lo può portare in terapia intensiva o magari in sala operatoria. Tutto il processo va avanti in modo automatizzato, senza che nessuno si fermi a pensare se fare tutto il possibile per quel paziente, se investire ogni risorsa, sia appropriato e proporzionato. Quale sia, dopo aver sottoposto quel paziente ad un iter diagnostico e terapeutico massivo, la sua qualità di vita. A volte gli accessi impropri alla terapia intensiva di pazienti verosimilmente morenti servono solo a prolungare un periodo agonico, facendo cose sproporzionate per il fine vita di quei pazienti. Si fa fatica a far scendere i pazienti dal nastro trasportatore. Spesso ci si accorge solo qualche giorno dopo che abbiamo una persona che non sopravviverà alla terapia intensiva o all'intervento chirurgico che ha subito. Ci accorgiamo tardi di aver solo prolungato inutilmente il suo fine vita, probabilmente non facendo il bene di quel paziente.

Noi medici dovremmo imparare a fermarci e a chiederci proprio questo, quale sia il bene del paziente. Dovremmo discuterne in modo collegiale tra i vari specialisti, senza lasciare la responsabilità ad uno solo. Dovremmo discuterne con il paziente se è possibile o con la famiglia. Le opzioni possono essere diverse dal trattamento intensivo a tutti i costi. Per alcuni potrebbe essere meglio avviare un trattamento palliativo, per altri definire un tetto di trattamento oltre il quale non è ragionevole proseguire.

Cosa si può fare per uniformare l’approccio al fine vita dei medici?

Si sta già facendo qualcosa. Oggi, rispetto agli anni scorsi, si intravedono cambiamenti incoraggianti. Gran parte del lavoro va fatto in ambito di formazione, di comunicazione e di condivisione. Nel mondo ideale le varie associazioni di medici, le società scientifiche, il mondo accademico collaborano sul tema e definiscono un comune approccio al fine vita. Bisognerebbe trovare un percorso comune, creare momenti comuni di condivisione delle scelte e dei criteri di appropriatezza tra i vari specialisti. Oggi la realtà in Italia non è uniforme.

Nel 2013 SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) pubblicò il documento Grandi insufficienze d'organo end stage condiviso con altre società scientifiche. Questo documento multi-societario coinvolse medici e infermieri, urgentisti, nefrologi, cardiologi, medici di medicina generale. Contiene degli algoritmi decisionali che alcuni ospedali hanno incorporato nelle loro procedure. Fu il primo tentativo di riunire diversi specialisti per affermare che se una persona ha un’insufficienza d’organo e poche prospettive, prima di mettere in atto tutte le terapie solo perché disponibili, bisogna chiedersi se la persona è potenzialmente alla fine della sua vita, se quindi possa essere appropriato un percorso differente.

Le decisioni difficili vanno condivise, non delegate

Un utilizzo appropriato delle risorse è importante quando queste sono disponibili, diventa essenziale quando queste non lo sono, come successe in Italia alla fine di febbraio del 2020 con la diffusione del virus SARS-CoV-2. In quel frangente SIAARTI pubblicò un documento2 che, ripreso dai media generalisti, fece molto scalpore e fece piovere diverse critiche sui medici. Lei era uno dei curatori del documento. Che cosa fece indignare così tanto l’opinione pubblica secondo il suo parere?

Le raccomandazioni SIAARTI di marzo 20203 furono molto strumentalizzate in Italia, soprattutto a livello politico. In altri ambienti sono state recepite in modo differente. A livello internazionale e in ambito accademico, infatti, hanno ricevuto un generale consenso e sono state seguite da esperienze simili.
Il documento non diceva nulla di nuovo. È risaputo da anni che, durante un evento straordinario di ampia portata in cui c’è uno squilibrio tra le risorse necessarie e quelle disponibili effettivamente, si debbano adottare criteri straordinari.
I criteri erano già presenti in letteratura medica, in diversi articoli di medicina delle catastrofi che parlavano di triage e di allocazione delle risorse in contesti di emergenza. Si parla di questo anche nel codice italiano di deontologia medica, quando si fa riferimento alla medicina militare4.

Probabilmente il terremoto mediatico è scoppiato perché nessuno si aspettava che criteri di quel tipo fossero necessario in un Paese occidentale e industrializzato come il nostro. Quel documento fece prendere consapevolezza a molti che le risorse erano insufficienti e che bisognava allocare bene le preziose risorse intensive.
Per un medico intensivista la questione è quotidiana, le richieste di accesso al reparto sono sempre maggiori rispetto ai posti disponibili. Chiaramente il livello di soglia dipende dalle risorse e dalla pressione che hai sul sistema.

L'impressione è che la società, compreso il mondo medico, si sia dimenticata che la morte è una componente naturale della vita. Non solo in un contesto straordinario quale fu l’inizio della pandemia di COVID-19, ma anche nel contesto ordinario sembra che molti medici non vogliano assumersi la responsabilità di riconoscere che un paziente è al termine della sua vita. Quali fattori possono determinare questo atteggiamento?

Tentare di delegare una responsabilità in una situazione difficile è umano. Per alcuni medici, nonostante la consapevolezza che il loro paziente non abbia possibilità di guarigione, la frase “non ci sono indicazioni rianimatorie” scritta in cartella dal collega rianimatore è un modo per condividere il carico della decisione. Per alcuni sicuramente in questo atteggiamento c’è uno scarico di responsabilità, ma mi piace pensare che per la maggior parte dei colleghi sia una modalità di condivisione. Probabilmente non è la modalità corretta per condividere una questione.

I fattori che entrano in gioco sono diversi. Per prima cosa a molti medici manca una formazione curriculare specifica per le tematiche legate al fine vita. Per molti medici il problema è come comunicare una notizia dolorosa al paziente, non lo sanno fare, nessuno glielo ha insegnato. La comunicazione spesso è ancora vista come un’attitudine, non come una competenza da acquisire e praticare. Per fortuna oggi molte scuole di specialità stanno attivando corsi per colmare questa lacuna e in futuro avremo medici capaci non solo di gestire le vie aeree o uno shock settico, ma anche di comunicare al paziente o alla sua famiglia che la sua patologia non è guaribile e che non ci sono terapie efficaci da poter mettere in atto.

Va poi menzionata la medicina difensiva. La paura di denunce può certamente determinare, tra le altre cose, una richiesta impropria di consulenze rianimatorie e di terapie poco utili. Anche questo aspetto non è uniforme, esistono differenze locali che dipendono da aspetti socio-culturali. In Italia, ad esempio, al Sud c’è una generale maggiore sfiducia nei confronti del servizio sanitario, per cui le famiglie sono spesso più portate a chiedere, anche con insistenza minacciosa, che vengano messe in atto tutte le cure a disposizione. C’è molta diffidenza, temono che senza pressione i medici non facciano tutto quanto è nelle loro possibilità. In questo contesto, ovviamente, i medici tendono a delegare le decisioni ad altri quanto più possibile.
C’è poi anche chi non vuole prendersi responsabilità e non uscire mai dalla sua zona di comfort. Esistono anche questi medici.

Dal punto di vista decisionale un algoritmo basato su uno score potrebbe aiutare i medici nel prendere decisioni difficili sul fine vita?

Esistono già degli algoritmi decisionali con score, alcuni anche validati. Alcuni sono utili, altri meno. Durante la pandemia di COVID-19, soprattutto durante la prima e la seconda ondata, i medici chiedevano proprio questo, score da applicare per decidere come gestire i pazienti e verso quale percorso indirizzarli. Vennero usati l’indice di comorbidità di Charlson, il SOFA score, ma senza grande utilità per valutare la gravità della COVID-19 e predire il rischio di mortalità.
Gli score costituiscono un supporto utile perché aggiungono oggettività alla discussione, ma non possono sostituire la decisione medica. Ammettere o non ammettere un paziente in terapia intensiva, interrompere o proseguire un trattamento, queste non sono decisioni delegabili ad un algoritmo decisionale o a un sistema automatizzato.

Parlare di fine vita tra medici e con i pazienti

Nella sua esperienza ci sono state situazioni di divergenza di opinione tra gli intensivisti a proposito dei criteri di accesso alla terapia intensiva, all’appropriatezza e alla proporzionalità delle cure? Se ci sono state, come hanno influito sul clima lavorativo?

Questo capita comunemente. Il fatto di avere opinioni diverse, sensibilità diverse, è positivo perché se si lavora in un contesto dove tutti la pensano allo stesso modo è più facile andare alla deriva, in un senso o nell'altro.
Non bisogna entrare in conflitto. Si deve imparare a discutere in modo tale da far emergere i disaccordi, giustificando ed argomentando le proprie posizioni si deve arrivare ad una strategia condivisa, con beneficio di tutti i coinvolti. Un buon clima di lavoro in una terapia intensiva, dove ogni opinione e sentimento possono essere messi sul tavolo, portati fuori senza che qualcuno si offenda, si senta giudicato, si senta messo all'angolo è fondamentale per gestire al meglio il paziente, soprattutto quando si parla di fine vita.
Se questo clima non c’è, se le opinioni non emergono, se non si discute in modo positivo, se ognuno rimane sulle sue posizioni, il rischio è che sul paziente si alternino strategie terapeutiche diverse a seconda di chi è di turno. Questo chiaramente non è una buona pratica. Si creano problemi e sofferenze al paziente, frustrazione tra gli infermieri, scompiglio e dubbi nei familiari, che non capiscono esattamente in quale direzione si stia andando.

Esistono gruppi di lavoro multidisciplinare sull’approccio al fine vita all’interno degli ospedali o tra medici ospedalieri e territoriali?

In Italia oggi, purtroppo, il panorama è ancora molto vario e frammentato. Conosco direttamente diverse esperienze virtuose nelle quali medici di varie specialità si sono sedute intorno a un tavolo e hanno condiviso opinioni e strategie di cura in modo collegiale, riuscendo anche a mettere in atto protocolli di comunicazione efficace con i pazienti e con le famiglie. Allo stesso tempo, ci sono ancora contesti in cui questi aspetti sono demandati alla buona attitudine e volontà del singolo. Nel mezzo ci sono situazioni più o meno funzionali, che potrebbero migliorare se inserite in un progetto di ampio respiro.

Perché spesso si parla di fine vita con i pazienti fragili o con le famiglie solo in situazioni di fine vita? È un argomento tabù per medici e pazienti?

Qualche anno fa scrissi, insieme ad alcuni colleghi, un commento che riprendeva una scena del film L’odio. Nella scena iniziale del film si dice “Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che, cadendo, passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio”.
Nel commento si parlava di un paziente affetto da BPCO end stage, con una serie di eventi acuti, che ogni volta si riprende a stento. “Fino a qui tutto bene”. Fino all’esito finale, il piano terra, quando il paziente muore dopo aver trascorso le sue ultime settimane in ospedale, ventilato meccanicamente. E la famiglia trasecola. “Ma come? Fino a ieri stava benissimo”.
Chiaramente, se questo succede, significa che è mancata completamente la comunicazione con il paziente e la famiglia sulle cure e sulle prospettive.
La pianificazione condivisa delle cure è uno degli strumenti più potenti previsti dalla Legge 219/2017, che molti conoscono come la legge sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento).

“Nella relazione tra paziente e medico  [...], rispetto all'evolversi delle conseguenze  di  una  patologia cronica e invalidante o caratterizzata  da  inarrestabile  evoluzione con prognosi infausta,  può  essere  realizzata  una  pianificazione delle cure condivisa tra il paziente  e  il  medico,  alla  quale  il medico e l'equipe sanitaria  sono  tenuti  ad  attenersi  qualora  il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere  il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.5

Questo invito è importantissimo, perché quando fai una diagnosi di tumore aggressivo o di malattia neurodegenerativa, una qualsiasi diagnosi che abbia una prognosi infausta molto probabile, è fondamentale una corretta comunicazione e condivisione con il paziente e con i familiari del percorso di cura e delle prospettive.
Quando questa pianificazione manca, il medico, spesso l’intensivista, si trova ad affrontare da zero una situazione già prossima a precipitare. “Ma come? Fino a ieri stava benissimo”.

Quale ruolo dovrebbero avere i medici di medicina generale in questo ambito?

Oggi, in Italia, i medici di medicina generale sono poco presenti in questo aspetto di condivisione e comunicazione sul fine vita. L’età media dei medici di medicina generale è alta. Ci sono per lo più medici che hanno studiato 30-40 anni fa, che nella loro formazione non hanno mai affrontato questi argomenti. Alcuni si sono aggiornati, certo, ma molti altri no.
I colleghi che sono diventati medici di medicina generale negli ultimi anni, invece, hanno avuto una formazione più strutturata, anche in ambito bioetico, seguono corsi di cure palliative e di comunicazione. Mi aspetto che la nuova generazione possa colmare queste lacune.

Serve formazione, ma anche pratica a parlare di fine vita. La preparazione e l'abitudine a parlarne rappresenteranno importanti progressi futuri per medici e pazienti. Oggi questo è un carico di lavoro che non tutti i medici sono disposti ad accollarsi. L'impatto emotivo è importante. Si comprende facilmente che non è facile parlare con un paziente affetto da malattia cronica e progressiva di quando andrà a peggiorare e delle scelte che si dovranno fare, mentre ha ancora una qualità della vita accettabile ed uno stato di salute non compromesso. Non è facile per il medico affrontare l’argomento, non è facile per il paziente e per la famiglia.
In letteratura ci sono diversi riferimenti alle difficult conversations. Tutti gli esperti concordano nel dire che queste vanno facilitate, perché danno beneficio sia al medico, sia al paziente.

Il ruolo degli infermieri e dei giovani medici

Gli infermieri sono coinvolti nelle decisioni sul fine vita dei pazienti?

La mia speranza è che in Italia il ruolo degli infermieri in questo ambito cresca progressivamente. Rispetto agli altri Paesi siamo un po' indietro. Nell’ambito di ESICM (European Society of Intensive Care Medicine), i gruppi di lavoro di bioetica che organizzano corsi di formazione vedono la partecipazione di molti infermieri, sia tra i docenti, sia tra i discenti. Il messaggio da trasmettere agli infermieri è quello di far sentire la propria voce.
Il loro ruolo è spesso quello di stimolare e veicolare la discussione all’interno del team, perché hanno letteralmente il paziente tra le mani, lo curano, hanno contatto con il suo corpo. Hanno un rapporto molto stretto, soprattutto in terapia intensiva, che i medici non hanno.
Non si può prescindere dalla voce di chi sta ore accanto al paziente, ne vede i progressi o la sofferenza. Invece in Italia succede spesso che gli infermieri subiscano le decisioni di altri, con grande frustrazione.

I medici specializzandi come vengono formati sul fine vita?

Anche qui, purtroppo, oggi in Italia non esiste un percorso strutturato, ma molto dipende dalla loro buona volontà e da quella dei loro tutor. Riuscire a non avere difformità nella formazione ci garantirà sicuramente in futuro un approccio più omogeneo al fine vita.

Ha un consiglio di lettura per i giovani medici che non hanno mai sentito parlare di queste tematiche?

Consiglierei un piccolo manuale, utile per iniziare a prendere confidenza con l’argomento: Ethical life support. Strumenti etici per decidere in medicina (in italiano). In lingua inglese un libro  conciso e adatto a medici senza cultura specifica in etica clinica può essere questo: Clinical Ethics: A Practical Approach to Ethical Decisions in Clinical Medicine.

 

Note e approfondimenti:

  1. Leggi ad esempio: Elia F, Aprà F. Walking Away from Conveyor-Belt Medicine. N Engl J Med. 2019 Jan 3;380(1):8-9. doi: 10.1056/NEJMp1810681. PMID: 30601741.
  2. “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”.
  3. Il 20 febbraio 2020 emerse in Italia un focolaio di SARS-CoV-2, virus segnalato per la prima volta in Cina solo poche settimane prima. Il virus causa la COVID-19, malattia spesso complicata da grave insufficienza respiratoria acuta. Il numero di casi in Italia aumentò continuamente nonostante le misure restrittive di sanità pubblica attuate dal governo.
    L'aumento dei casi in Lombardia e nelle regioni limitrofe portò a un costante incremento del numero di pazienti ricoverati negli ospedali e nelle unità di terapia intensiva. In quel frangente, una parte sostanziale dei soggetti con diagnosi di COVID-19 richiedeva un supporto ventilatorio a causa di una polmonite interstiziale caratterizzata da una grave ipossiemia. La fase acuta della malattia poteva durare molti  giorni e il supporto ventilatorio, invasivo o non invasivo, si rendeva necessario per settimane. Tutto questo determinava necessità di cure intensive e di professionisti altamente qualificati.
    L'entità della domanda causò uno squilibrio tra i reali bisogni clinici della popolazione e l'effettiva disponibilità di risorse intensive. in questo senso, la disponibilità di letti di terapia intensiva era uno dei principali problemi di salute pubblica.
    Fin dall'inizio dell'epidemia, furono compiuti sforzi straordinari per aumentare il numero di letti di terapia intensiva e di ventilatori. Fu in quella situazione che, il 6 marzo 2020, SIAARTI pubblicò linee guida assimilabili al campo della "medicina delle catastrofi", definendo criteri di accesso e di dimissione dalle unità di terapia intensiva che includessero  anche principi di giustizia distributiva e di appropriata allocazione delle risorse sanitarie limitate, oltre all'appropriatezza clinica e alla proporzionalità delle cure. Venne evidenziata la necessità di garantire trattamenti intensivi solo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico, favorendo la "maggiore aspettativa di vita". In questo senso, la necessità di cure intensive doveva essere integrata con altri aspetti, tra cui la gravità della malattia da un lato, la gravità e il numero di comorbidità preesistenti dall'altro. Questo significava non seguire necessariamente un criterio di accesso alla terapia intensiva del tipo "chi prima arriva, meglio alloggia". Per approfondire l’argomento leggi: Vergano M, Bertolini G, Giannini A, Gristina GR, Livigni S, Mistraletti G, Riccioni L, Petrini F. SIAARTI recommendations for the allocation of intensive care treatments in exceptional, resource-limited circumstances. Minerva Anestesiol. 2020 May;86(5):469-472. doi: 10.23736/S0375-9393.20.14619-4. Epub 2020 Apr 3. PMID: 32242647.
  4. “[...]Il medico militare, al fine di garantire la salvaguardia psico-fisica del paziente in rapporto alle risorse materiali e umane a disposizione, assicura il livello più elevato di umanizzazione delle cure praticando un triage rispettoso delle conoscenze scientifiche più aggiornate, agendo secondo il principio di “massima efficacia” per il maggior numero di individui [...]” (Codice di deontologia medica 2014, art.77).
  5. Legge 22 dicembre 2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. (18G00006) (GU Serie Generale n.12 del 16-01-2018)”, articolo 5.