Oggi l’elettricista conosce molto meglio il guasto rispetto a febbraio, ma anche a febbraio l’elettricista non era completamente sprovvisto di conoscenze. Noi oggi sappiamo esattamente che tipo di virus ci troviamo di fronte, sappiamo come agisce, lo conosciamo dal punto di vista del genoma molto meglio di quanto non conosciamo moltissimi altri virus. Inoltre, sappiamo da tempo come si comportano le epidemie e, precisamente, che gli inneschi sono stocastici e caotici, che quindi possono passare anche mesi prima che un virus che circola sottotraccia torni a manifestarsi.
Il problema vero non è che noi non sappiamo identificare il guasto e come sia avvenuto. Si tratta di un guasto per cui non disponiamo ancora di uno strumento adatto alla riparazione. Disponiamo però di alcuni strumenti, che possono aiutarci. Rispetto a febbraio molte cose sono migliorate. In particolare adesso abbiamo modo di diminuire la mortalità con il remdesivir, con il desametasone, con il tocilizumab in certe condizioni. Altri farmaci sono in arrivo. Poi abbiamo procedure molto migliorate per quello che riguarda i criteri di ammissione in ospedale. Anche dal punto di vista della sorveglianza sanitaria e della diagnosi non siamo nelle stesse condizioni di febbraio. Oggi il nostro elettricista è in grado di dirci se il guasto c’è o non c’è.
L'errore principale che commettiamo, che ci portiamo dietro da febbraio, è che invece di affidarci ad un elettricista, chiamiamo a casa nostra decine di tecnici. Non solo elettricisti, chiamiamo anche qualche idraulico e qualche fochista. Ci comportiamo come se non avessimo un numero di riferimento per i guasti e chiamassimo chiunque ci appaia possa avere qualche competenza tecnica. In Italia non abbiamo un ente scientifico unico a cui fare riferimento, una voce unitaria che abbia prevalenza su tutte le altre e che abbia un’autorevolezza indiscutibile, basata su un background scientifico. In altri Paesi questo esiste, in Italia no. In Italia ci muoviamo improvvisando, così abbiamo 3 enti diversi a fare analisi e a fornire dati: il Ministero, l’Istituto Superiore di Sanità, la Protezione Civile. Non solo, questi dati provengono da regioni diverse che usano modalità diverse di raccolta e di trasmissione. Abbiamo creato un’enorme confusione, che non è solo di tipo comunicativo, ma anche di tipo operativo. Questo determina, ad esempio, il perenne ritardo di ogni azione, che è obsoleta ancor prima di essere messa sul campo.
Non è che noi non abbiamo accumulato conoscenza. È che, in realtà, non abbiamo identificato in maniera chiara ed evidente chi deve formulare una strategia all'interno della comunità scientifica. Lo stesso Comitato Tecnico Scientifico è un organo consultivo, i cui poteri non sono ben delimitati, la cui composizione non è stata originata da una selezione basata su un background scientifico. È un organo creato d'improvviso, con funzione di consulenza, in cui i politici hanno scelto chi inserire. Nulla di paragonabile dunque al board scientifico di enti come, ad esempio, l'Hans-Knöll-Institut o il National Institutes of Health.
Questa situazione si rifletterà anche nel prossimo futuro. Quella che stiamo vivendo non sarà infatti l’ultima ondata di questo virus e questo non sarà l’ultimo virus con cui dovremo fare i conti. In Italia non abbiamo strumenti efficaci per fronteggiare le emergenze sanitarie. La nostra Protezione Civile ha competenze nella gestione di vari tipi di catastrofi, ma mostra di non avere competenze in materia di emergenza sanitaria. Affidarle la gestione della pandemia, in queste condizioni, è rischioso. Considerato anche il fatto che, negli anni, la Protezione Civile si è trasformata in una sorta di dipendenza della Presidenza del Consiglio e che agisce con potere di ordinanza, svincolata dal controllo del Parlamento e del Presidente della Repubblica.
Noi scontiamo una pessima organizzazione, praticamente improvvisata, della macchina che deve gestire un’emergenza di questo tipo. La stessa macchina che poi crea anche quel disordine comunicativo che porta i cittadini a smettere di ascoltare numeri strani, incomprensibili, dati da fonti diverse, e a cercarsi il proprio esperto su Facebook, che sia un professore di virologia o qualche ciarlatano improvvisato.
Il Prof. Enrico Bucci
Il problema risiede nella disponibilità dei cattivi scienziati a soddisfare le aspettative della politica. Molto spesso un cattivo scienziato non sa di essere un cattivo scienziato, a meno che non sia un vero e proprio frodatore. I frodatori di certo non mancano, basti pensare al Premio Nobel Luc Montagnier o ad altri personaggi che vanno a fare interventi alla Camera dei Deputati. Ma il problema non sono tanto questi, quanto i cattivi scienziati che fanno cattiva scienza principalmente a causa dei propri bias, non per frodi. Ce ne sono tantissimi in particolare nel settore della biomedicina, se ne trovano meno tra i fisici e chimici. Se ne trovano molti più tra i biomedici per un problema di formazione, proprio per una cattiva formazione al metodo scientifico e al metodo quantitativo di analisi. La disponibilità di un'ampia scelta di cattivi scienziati permette al politico di trovare sempre lo scienziato che può confermare un'aspettativa dei propri elettori. Il cattivo scienziato è quindi utile al politico per guadagnare consenso. Questo meccanismo resta in piedi finché il politico può di volta in volta scegliere lo scienziato. Questo è molto sbagliato, ma in Italia è la norma. Tutto questo proliferare di comitati, non solo del CTS, dei vari coordinamenti regionali, dei vari organi consultivi, nasce esattamente perché i politici fanno shopping tra gli scienziati che più fanno comodo, salvo poi abbandonarli quando non servono più. Nel momento in cui la gente si aspetta una risposta dalla scienza, i politici utilizzano questi cattivi scienziati per supportare un proprio programma politico e per guadagnare consenso.
Siccome non esiste un’organizzazione, un’istituzione che esprima con fermezza un contenuto scientifico, allora ci si può rivolgere a dei comitati componendoli all'occasione e mantenendoli per il tempo necessario per guadagnare consenso. In questo senso tutti gli scienziati che si prestano a questo tipo di meccanismo sono cattivi scienziati. Sono cattivi scienziati non perché siano cattive persone o perché lavorino a cattive pubblicazioni scientifiche, ma perché dimenticano che il rapporto tra scienza e politica deve essere basato non sulla consulenza individuale, ma sulla consulenza individuale come espressione di un consenso collettivo. Per determinare quale sia il consenso collettivo durante un’emergenza quale la pandemia che stiamo affrontando servono capacità di analisi che molti pochi scienziati hanno in questo momento in Italia.
Sulla scena prevalgono i cattivi scienziati. Dietro le quinte, per fortuna, prevalgono ancora e di gran lunga i buoni scienziati.
In questa situazione il fattore che ha prevalso maggiormente e che ha fatto perdere credibilità alla scienza è rappresentato indubbiamente dal proliferare delle pubblicazioni. Il sistema di pubblicazione e il mercato editoriale da una parte, dall’altra il fatto che per supportare questo sistema abbiamo creato un criterio di valutazione degli scienziati basato sul numero di pubblicazioni e sulla quantità di citazioni che ricevono. Questi due elementi sono ormai inestricabilmente connessi e questo ha provocato un'esplosione gigantesca di pubblicazioni di cattiva qualità. Esplosione che, a sua volta, rende impossibile un’operazione efficace di filtraggio, aumentando quindi la quantità di vera e propria immondizia che viene pubblicata anche su riviste prestigiose.
In questo momento è saltato il controllo già non eccellente su quanto viene pubblicato. Si è pubblicato veramente di tutto, siamo arrivati anche a dover leggere un editoriale di “Nature” in cui si scrive che la rivista si occuperà anche di politica. Iniziativa pericolosa a mio parere, perché si tratta di un travisamento del ruolo della rivista scientifica. C'è una bulimia comunicativa da parte delle riviste, fatta sia da articoli d’opinione sia da un numero altissimo di pezzi scientifici o presunti tali. L’idea prevalente è che di debba pubblicare sempre e comunque qualcosa di nuovo, mettendo in secondo piano le riflessioni sull’opportunità di pubblicazione.
"Cattivi scienziati" di Enrico Bucci
Il sistema immunitario della ricerca ha reagito abbastanza vigorosamente Tanto è vero che sono aumentate di gran lunga le ritrattazioni anche su riviste molto importanti. Inoltre è diventato molto breve il tempo che intercorre tra la segnalazione e la ritrattazione sul tema COVID-19. Il sistema immune basato sulla collaborazione online tra studiosi che controllano i dati sta funzionando. La sua esistenza ci ha protetto dagli articoli basati su dati falsi pubblicati da “The Lancet” o da quelli sul vaccino russo. Questo sistema sta funzionando abbastanza bene, ma non è sufficiente a produrre buona scienza. Un conto è contrastare la cattiva scienza che viene pubblicata, oltretutto concentrandosi sui casi più eclatanti, un’altra cosa è disincentivare questa esplosione di cattiva scienza.
Per fare questo noi dobbiamo sganciare la pubblicazione scientifica dalla valutazione dei ricercatori. Bisogna smettere di incentivare i ricercatori a pubblicare qualunque cosa perché così possano guadagnare citazioni, avanzare in carriera, guadagnare finanziamenti. Altro punto che secondo me è veramente rilevante è la necessità di immaginare che il processo di revisione degli articoli scientifici diventi un’attività riconosciuta per i ricercatori stessi. Sarebbe davvero importante poi avere un processo di revisione pubblico, in modo che la comunità possa leggere le obiezioni sollevate dai revisori, anche ad articolo pubblicato.
Per migliorare la scienza che viene pubblicata si dovrebbe agire energicamente in due direzioni. In primis facilitare una peer review aperta, pubblica, riconoscibile ed incentivata. Quindi smettere di usare come criterio automatico di valutazione, cosa che si fa spesso in Italia, il numero di pubblicazioni e il numero di citazioni.
Gli studi scientifici dovrebbero essere divulgati prima della peer-review solo fra i ricercatori. Non è sensato che un articolo pre-print sia messo in mano al pubblico e ai giornalisti.
Io usavo la mia pagina Facebook per divulgare contenuti e per ingaggiare discussioni con i frequentatori della pagina. Da un mese circa ho smesso di partecipare alle discussioni, mi limito a divulgare contenuti. Non è possibile ingaggiare discussioni con persone che non hanno intenzione di rispettare alcuna regola. La maggior parte delle discussioni che venivano affrontate raccoglievano anche partecipanti malintenzionati che non avevano nessuna volontà di confrontarsi con chi gestiva la pagina. Così non ha senso discutere. Quando l’interlocutore alza le barricate, difende la propria posizione e non cede nulla, allora la discussione è solo una perdita di tempo. Siamo arrivati alla denigrazione vera e propria. Si trattava per me di una situazione insostenibile. In una pagina seguita da 30.000 persone non può essere tollerato che ognuno si senta autorizzato a scrivere qualunque cosa gli venga in mente in nome di un non ben identificato concetto di democrazia incensurabile. Non si tratta più di fare divulgazione, si tratta di cimentarsi in confronti anche aggressivi con persone che possono essere l’uomo della strada o colleghi. Alcuni hanno l’intenzione primaria di screditare la persona, non le idee.
La vicenda ci mostra la differenza tra una ricerca svolta in un sistema liberale e occidentale, in cui un singolo effetto collaterale in un trial che coinvolge decine di migliaia di persone blocca lo studio clinico finchè non si fanno approfondimenti (come nel caso di Astrazeneca) e quella svolta in un sistema completamente chiuso, dove nessun dato è accessibile. Si tratta di una ricerca che viola ogni norma della comunità scientifica relativamente alla condivisione e alla discussione dei dati. Ricerca a cui si aggiunge un alto tasso di politicizzazione.
Da una parte abbiamo un sistema in cui bisogna quindi fidarsi delle parole di chi promuove il vaccino, di chi è pronto ad iniettarlo senza dare alcuna garanzia o tutela. Dall’altra abbiamo un sistema in cui un singolo problema evidenziato su 50.000 test blocca lo studio finchè non si comprende quanto è accaduto.
Quel che ci insegna questa vicenda è che la trasparenza è un valore non negoziabile nella ricerca scientifica in sé e poi nella condivisione dei dati scientifici. Tutto quanto sta avvenendo in Russia, per quel che mi riguarda, non è scienza.
Siamo ancora all'inizio della pandemia e nessuno oggi può sapere come evolveranno le situazioni. Impareremo a convivere con questo virus, certamente. Noi abbiamo imparato a convivere con tutti i virus. Ne abbiamo eradicato uno solo, con gli altri continuiamo sempre ad interagire. Ad esempio, abbiamo imparato a convivere con l’HIV/AIDS, abbiamo accettato l’idea di fare sesso usando il preservativo, cosa che fino agli anni Ottanta del secolo scorso sembrava inaccettabile. Per alcune religioni lo è ancora. Il nostro modo di adattarci ai virus comporta una serie di elementi, non sempre gli stessi. A febbraio ci siamo dovuti adattare a mani nude, oggi le nostre mani non sono più vuote. Sappiamo di più, abbiamo qualche molecola in più (e andando avanti ne avremo ancora di più).
Certamente quel che si nota è anche il mal-adattamento. Si nota in modo evidente una differenza tra la reazione delle nazioni occidentali, il cui ideale è basato sul principio di democrazia liberale a tutela della libertà individuale e sull’incentivazione delle facoltà dell’individuo, e quella di nazioni orientali nelle quali la comunità è dominante sull’individuo. Il virus sta selezionando in questo caso… Ecco spiegato perché da noi ci sono molte più morti inutili, causate dalle idee folli di qualcuno, rispetto a quelle che si contano in paesi orientali quali la Cina, il Giappone, la Corea del Sud. Quando parliamo di adattamento al virus non dobbiamo pensare al nostro singolo Paese, ma dobbiamo pensare su scala globale. Può darsi che tutti quanti accetteremo, per esempio, l'idea di avere il tracciamento come in Corea, quindi con riconoscimenti facciali, app molto invasive dal punto di vista della privacy. Può darsi che parte dell'adattamento consisterà non nel modificare necessariamente i comportamenti, ma le tecnologie e gli ambienti intorno a noi. Potremmo doverci abituare all'idea che, come abbiamo incentivato i pannelli solari per cercare di ridurre l'impatto ambientale, dovremmo anche incentivare con le nostre tasse in ogni ristorante dei sistemi di aspirazione/filtrazione dell'aria per convivere non solo con questo virus, ma con tutte le malattie trasmissibili per via aerea che incontreremo. L’adattamento che ci ha salvato nell'Ottocento, la chiave di volta nella gestione delle malattie infettive, è stato l'adattamento architettonico nelle città, col rifacimento delle fognature, con la creazione di viali ampi e il miglioramento della circolazione di aria e luce.
Noi ora non sappiamo in cosa consisterà l’adattamento a questo virus. Non sappiamo se sarà l’uso della mascherina o il fatto di avere meno contatti fisici. Probabilmente servirà qualcosa di più radicale. Si consideri che noi non ci dobbiamo adattare solo a questo virus, ma anche ad altri. Abbiamo predisposto un mondo ideale perché scoppino pandemie.